Sulle maggiori piattaforme social, da giorni, moltissimi utenti tra cui attivisti e giornalisti, hanno notato uno strano andamento tra le visualizzazioni dei loro post e storie su Instagram in cui parlano delle difficoltà e atrocità che stanno subendo i territori palestinesi e israeliani. In particolare, sembrano essere presi di mira soprattutto gli account che esprimono vicinanza alla causa palestinese, da giorni sotto “shadowban”, la pratica con la quale i social mettono in ombra determinati account. Non è un’esclusione vera e propria dalla piattaforma, ma un oscuramento temporaneo per cui l’account diventa praticamente inesistente e invisibile.
Questa sorta di censura, riscontrata soprattutto dagli utenti Instagram che hanno pubblicato post pro-Palestina, ha portato alla scomparsa dei loro account dalla pagina esplora e dalla home dei propri follower, facendo così calare drasticamente le visualizzazioni delle storie – formato di post che scompare dopo 24 ore. Il problema si era già presentato, sempre nel contesto del conflitto israelo-palestinese, nell’aprile del 2022 ma questa volta le persone che raccontano di essere state “shadowbannate” sono molte di più e tra loro ci sono anche personalità che raccontano l’andamento del conflitto sui social network per lavoro, come la giornalista del New York Times Azmat Khan (vincitrice di un premio Pulitzer), che ha dichiarato di essere stata penalizzata dopo aver parlato di Gaza nelle proprie Storie.
L’arma di difesa contro la censura dei social: “l’algospeak”
Per ovviare all’oscuramento delle loro opinioni, gli utenti delle varie piattaforme social, da tempo si sono munite di un’arma di difesa: l’algospeak, una lingua inventata per non essere presi di mira dall’algoritmo, che si modifica ogni volta che certe parole vengono individuate e segnalate come offensive. Sarà capitato almeno una volta, infatti, di notare dei post sui social con scritte simili: Su1c1d1, M0rt*, H4m4s, Pal***, è una strategia volta a proteggersi dallo shadowban.
La risposta di Meta
“Non discriminiamo i contenuti” – hanno dichiarato i colossi social Meta e TikTok – “La delicatezza della situazione ha imposto di attivare gruppi specifici di moderatori per filtrare i potenziali messaggi di propaganda, l’enorme mole di contenuti condivisi moltiplica le possibilità di errore. Le affermazioni secondo cui stiamo cercando di limitare l’espressione di alcune comunità o di un certo punto di vista sono assolutamente false. Le nostre policy sono concepite per dare voce a tutti e le applichiamo indipendentemente da chi posta o dalle opinioni personali degli utenti”.
Andy Stone, portavoce di Meta, ha dichiarato inoltre che si sarebbe verificato un bug che ha limitato la visibilità delle stories, precisando che il problema tecnico non ha nulla a che fare con il conflitto israelo-palestinese. Meta ammette anche di aver rimosso per errore alcuni contenuti che non violano le policy, a causa dell’elevato volume di traffico di post che hanno inondato il web. Meta ha dunque rigettato le accuse dando la colpa dell’oscuramento dei profili al “bug che incide su tutte le storie che ricondividono i post di Reels e Feed”.
“Questo bug ha colpito gli account in egual misura in tutto il mondo e non aveva nulla a che fare con l’oggetto del contenuto e l’abbiamo risolto il più rapidamente possibile”, si legge in un post pubblicato sul blog ufficiale di Instagram.
Tuttavia, i diversi utenti Instagram che continuano a condividere contenuti sulla Palestina e sulla situazione a Gaza, continuano a registrare un engagement significativamente basso ma non solo: alcuni utenti hanno segnalato che sono stati bloccati anche i post e i link che contenevano i collegamenti per mandare donazioni a Gaza o enti di beneficenza a sostegno dei cittadini di Gaza.
Giulia Lecis