Prima o poi doveva capitare. Amazon annuncia che 14.000 dipendenti perderanno il lavoro nell’anno a venire. I canali mediatici cominciano a gorgogliare, viene già definito il licenziamento più massiccio della storia.
La notizia non può che leggersi nella lente del simbolismo a partire dal luogo, Seattle, la città dove ha sede il colosso mondiale del commercio al dettaglio.
Basta però accennare la parola “commercio” e collegarlo a questa immensa metropoli per ricordare 26 anni fa una conferenza storica, quella che incoronò la Globalizzazione riconoscendole un potere che già qualche anno prima si era presa, quello di plasmare un nuovo corso di scambi, linguaggi, regole e stili di vita.
La speranza di alcuni, che proprio a Seattle nella Conferenza del WTO si ritrovarono, era che questo concetto astratto si ponesse al di sopra delle culture e delle tradizioni, dei confini e dello spazio fisico, al di sopra financo della “Politica”. I teorici dal Fukuyama in poi la legarono in modo strano al concetto di progresso e a tutti sembrò irreversibile.
Le nuove regole-non regole del commercio mondiale si incominciavano a discutere proprio in quella conferenza, i nuovi attori del commercio mondiale come la Cina facevano pressione per godere del proprio spazio, le potenze ancora accostumate ad una concezione di “Politica” fatta di spazi e di equilibri di potere venivano trascurate senza troppo considerare quello che oggi è sotto i nostri occhi, si veda il caso della Russia.
Quella stessa conferenza coincise poi con la scoperta di una nuova fiammata della sinistra occidentale. Dopo il periodo Tatcher-Reagan, dal quale Blair e Clinton avevano molto ereditato, dal basso era culminata la tensione che si stava accumulando e che avrebbe, proprio nel 1999 a Seattle, sotto i palazzi dove si svolgeva la Conferenza, liberato per le strade il movimento No-Global. Movimento che in Italia avremmo visto in tutta la sua drammatica espressione al G8 di Genova del 2001.
Quel movimento depauperato della sistematicità della cultura politica della sinistra novecentesca, desideroso di cercare nuovi riferimenti, nuovi criteri di analisi ed elaborazione col peccato di gettare via spesso anche ciò che di razionale c’era negli schemi precedenti. Quel movimento che ancora come negli anni ‘70 del conflitto generazionale faceva un cardine, che proteggeva questo conflitto con un vestiario ad hoc, delle acconciature, dei modi di fare con la speranza di esasperarlo e prolungarlo anche oltre la gioventù fino ai nostri giorni.
Quello stesso movimento tante cose aveva comunque compreso del mondo che sarebbe arrivato e che oggi ci consegna la notizia dei licenziamenti di Amazon. Una di queste è che le classi sociali sarebbero state schiacciate, tutte quante. Soffocate dall’inveramento della tendenza monopolistica del capitalismo. Sarebbero state per meglio dirla con i termini di Paolo Perulli, sociologo, teorico fra i pochi in modo così chiaro, testimoni dello “scivolamento” della classe media. Oggi il termine “multinazionale” che allora sembrava spaventoso risulta quasi riduttivo per descrivere quella tendenza e questo scivolamento, e il consumismo di pasoliniana memoria si è trasformato in un irrigidimento tanto della domanda quanto dell’offerta che si rimpallano in un circolo vizioso fatto di dazi e protezionismo ma sopratttutto di bassi salari e crisi demografica.
Perulli ed altri tracciano la mappa sociologica. All’orizzonte un’enorme classe subalterna, una moltitudine di persone emarginate dalla “produzione” della ricchezza, dalle decisioni, dalla “storia”. Dall’altro lato gli “olìgoi” che per le loro ricchezze o per la capacità di muoversi velocemente e cavalcare i giri di vite di questa società disintermediata, si ritrovano in una locomotiva senza verso.
Tornando alla notizia, il succo è questo: l’IA lavorerà al posto di queste 14mila persone che oggi svolgono le proprie attività per Amazon. Si parla non di attività manuali e mansioni fisiche, bensì di una fascia di lavoratori con ruoli tecnici e gestionali. Ci sarà un’intelligenza artificiale capace di ragionare al posto loro, quindi sostituirle. Questo, almeno, sembra di capire da ciò che si legge scorrendo fra le pagine di Reuters o del Washington Post.
Il capitale variabile lascia spazio al capitale fisso, la macchina di cinquant’anni fa diventa l’intelligenza artificiale con i suoi modelli e con i dati di cui nutrire gli algoritmi. La cultura sindacale si è smarrita, la capacità di negoziare in una logica collettiva oltre che individuale è dimenticata. La formazione ai nuovi lavori che accompagnano l’Intelligenza artificiale e si rendono dipendenti da essa è ancora di là dal palesarsi.
Milano – Nadir Lehemdi
