La responsabilità civile e penale del magistrato in caso di errori o inosservanze compiute nell’esercizio delle funzioni.

La responsabilità civile e penale del magistrato in caso di errori o inosservanze compiute nell’esercizio delle funzioni.

Nell’articolo precedente ho parlato del motivo per cui le cause sui danni da vaccino anti covid-19 o sulla restituzione delle retribuzioni per i lavoratori sospesi, sono state archiviate o rigettate.

Oggi invece tratteremo della responsabilità che i giudici hanno, quando motivano le loro decisioni in sentenza.

I magistrati sono sottoposti alla responsabilità sia civile che penale come tutti gli altri cittadini.

La responsabilità civile è la responsabilità che il magistrato assume, nei confronti delle parti processuali, o di altri soggetti, a causa di errori o inosservanze compiute nell’esercizio delle funzioni.

La legge dispone che: può fare ricorso chi abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento o di un provvedimento di un magistrato esercitato con dolo, colpa grave, ovvero per diniego di giustizia.

La responsabilità civile dei magistrati è disciplinata dalla legge 117/1988, che ha dato alla materia una nuova regolamentazione a seguito del referendum del novembre 1987, che ha comportato l’abrogazione della previgente legge, che era fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice.

L’articolo 1 della legge n. 117/1998 ne delinea il campo d’applicazione, stabilendo che le disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati si applicano «a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria». Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.

Quando è considerato danno ingiusto?

Sotto il profilo sostanziale, l’articolo 2 della legge n. 117 afferma il principio della risarcibilità del danno ingiusto. Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, il danno ingiusto risarcibile, secondo la nozione recepita dall’art. 2043 cod. civ., è quello che produce la lesione di un interesse giuridicamente rilevante, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (Cass., III sez., ord. 10 agosto 2002, n. 12144; Sez. III, sent. 19 luglio 2002, n. 10549).

Il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia”.

Al comma 3 dell’art. 2 leggiamo: “Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea,…“.

Molti ricorsi depositati in questi anni in diversi tribunali d’Italia, aventi come oggetto il licenziamento o la sospensione dal lavoro, perchè non si è voluti cedere all’imposizione ingiusta di un farmaco sperimentale chiamato indebitamente vaccino, sono stati archiviati, rigettati o addirittura persi con condanna alle spese, perchè il giudice non ha voluto tenere conto della normativa Europea sulla inviolabilità del corpo umano e dei diritti sanciti nelle diverse Convenzioni ad esempio la “Convenzione di Oviedo“, la CEDU e altri Regolamenti Europei.

 Principio del primato del diritto Comunitario

Con questa espressione s’intende quel principio per cui in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra norme di diritto comunitario e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde.
La necessità di affermare questo principio nasce dal fatto che la diretta applicabilità del diritto comunitario non potrebbe costituire una garanzia sufficiente per i cittadini degli Stati membri in quelle ipotesi in cui una norma comunitaria dovesse contrastare con una disposizione interna; se quest’ultima dovesse prevalere sulla norma comunitaria i diritti attribuiti ai singoli  dall’ordinamento comunitario non troverebbero alcuna tutela.
Il principio del primato del diritto comunitario, volto proprio ad evitare tale eventualità, fu affermato per la prima volta nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. Enel.

La Corte di Giustizia della Comunità Europea nel caso Italia c. Simmenthal S.p.A. con sentenza del 9 marzo 1978 nella causa R.G. 106/77 ha disposto che: “In presenza di disposizioni dei Trattati o atti delle Istituzioni direttamente applicabili in forza del primato del diritto UE: il giudice comune deve disapplicare ipso iure (non applicazione) qualsiasi disposizione nazionale contrastante e incompatibile con norme comunitarie“.

Sentenza con la quale la Corte di Giustizia ha affermato la preminenza delle norme comunitarie su quelle nazionali (Principio del primato del diritto comunitario).
L’intervento della Corte di Giustizia era stato richiesto dal Pretore di Susa il quale domandava se i giudici nazionali, nel garantire ai cittadini i diritti attribuiti loro dal diritto comunitario, dovessero disapplicare le disposizioni nazionali contrastanti con quelle comunitarie.
La Corte di Giustizia, contestando l’orientamento seguito dalla Corte Costituzionale italiana, sottolineava la necessità di un controllo diffuso nel quale spettasse a ciascun giudice nazionale, in sede di applicazione delle norme comunitarie, garantire la piena efficacia delle stesse, disapplicando la norma interna contrastante senza la necessità di sollecitare l’intervento caducatorio della Consulta.
In base a tale sentenza “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.

La Corte Costituzionale, con sentenza 6 luglio – 15 settembre 2022, n. 205, (in G.U. 1a s.s. 21/09/2022, n. 38) ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui NON prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale”.

Vige pertanto il principio secondo cui il diritto dell’Unione europea deve sempre prevalere su quello nazionale, anche ove si tratti di pronunce costituzionali.

La Corte di giustizia dell’UE, ha stabilito che un giudice nazionale non è tenuto a rispettare una sentenza della propria Corte costituzionale se essa si pone in contrasto con il diritto comunitario. Anche le norme costituzionali di più alto rango, secondo la Corte UE, non possono infatti prevalere sulle direttive europee.

Anche la Corte di Lussemburgo con sentenza afferma chiaramente che i giudici nazionali possono ignorare una decisione della loro Corte costituzionale, qualora questa violi il diritto europeo, senza incorrere in sanzioni disciplinari.

Alla luce di tutto quanto qui appreso, appare evidente che ci sia una grande responsabilità civile dei giudici che hanno disapplicato il diritto Comunitario in favore di leggi Nazionali emesse in Stato di emergenza pandemico non previsto dall’ordinamento italiano, per un farmaco sperimentale che non preveniva l’infezione, e che pertanto mancava del suo scopo fondamentale.

Francesco Paolo Cinquemani

* avvocato

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