C’è un uomo in Italia che negli ultimi quarant’anni ha improntato la sua attività di studioso e di ricercatore all’analisi dei misteri stragisti e della strategia della tensione che hanno seminato lutti e paure nel nostro Paese. Aldo Giannuli, 72 anni, a lungo consulente della commissione d’Indagine sulle Stragi in Italia, e di varie procure sulle zone d’ombra di quegli anni dolorosi, oggi è in libreria con Geopolitica per Ponte alle Grazie: lo abbiamo incontrato.
Caro Professore, lei che da decenni esplora i neuroni delle spie, come giudica quello che sta accadendo da settimane, dal caso Equalize, alle vicende del finanziere Striano, al meno clamoroso caso del bancario di Bitonto?
“Non mi sorprende perché la tecnica del dossieraggio ha delle radici almeno secolari, il fascismo è stato una grande scuola, non solo ha partorito le idee fondamentali del nazismo ma ha anche elevato alla massima potenza l’arte e l’arma del dossieraggio. Già da allora “dacci oggi il nostro dossier quotidiano” era una preghiera piuttosto invocata”.
A parte il lavoro dell’OVRA, mi racconti qualche episodio che ha visto spioni e spiati illustri sotto il regime di Mussolini.
“Sotto il regime, quasi tutti i gerarchi fascisti avevano un proprio personale sistema di dossieraggio per ricattare i rivali. Il più bravo di tutti era Roberto Farinacci, che teneva un poderoso schedario di materiale compromettente. Una delle sue ‘vittime’ preferite era addirittura Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Secondo alcune ricostruzioni, Farinacci possedeva persino documenti rubati a Matteotti durante il rapimento, che collegavano i fratelli Mussolini al caso Sinclair Oil (celebre caso di corruzione dell’industria petrolifera americana).
Memorabili sono anche le vicende di Augusto Turati, segretario del Partito Nazionale Fascista: Farinacci sfruttò la testimonianza di un’ex amante francese di Turati, che, per vendicarsi di essere stata lasciata, lo accusò di pratiche oscene fra le quali l’omosessualità era considerata la più disdicevole. Dopo aver rovinato Turati, che finì in esilio sull’isola di Rodi, Farinacci non smise di praticare un’arte del ricatto che lo rese praticamente intoccabile”.
Una tradizione che continua anche nell’Italia repubblicana.
“Sì, senza dubbio. Con qualche differenza, continuò questa ‘sana’ tradizione del dossieraggio. Basti ricordare Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, trovato dalla polizia in situazioni compromettenti all’estero, oppure intrappolato da una foto scattata a un giovane ragazzo che uscì nudo dal balcone della sua stanza. La Democrazia Cristiana era il partito più sensibile ai ricatti sessuali, e anche il più interessato da dossieraggi personali. Curiosa fu la vicenda di Fanfani, su cui il SIFAR raccolse dossier così voluminosi da essere conservati in faldoni grandi quanto due dizionari.
Diversa ma non troppo, l’attività di Mino Pecorelli che nella rivista OP spesso si limitava a ‘ventilare’ informazioni, che gli costarono molto care. Il Partito Comunista, era, se vogliamo, più centralizzato: attraverso la Commissione Centrale di Controllo, raccoglieva informazioni interne che non venivano divulgate. Questo archivio, a oggi, non è mai stato reso pubblico, e mi piacerebbe sapere dove sia finito”.
Si racconta che persino Sandro Pertini, allora Presidente della Camera, un giorno accettò di parlare con due pretori d’assalto impegnati sullo scandalo dei petroli solo una volta accompagnati in un austero sgabuzzino di Montecitorio, e che quando gli fu chiesto “Dove stiamo andando?” rispose che quello era l’unico posto della Camera dei Deputati dove non ci fossero microspie. Colpisce che, come ha spiegato, già dai tempi del fascismo si spiassero non solo gli avversari ma anche i compagni di partito.
“Il tuo ‘vicino di partito’ insidia la tua crescita nella piramide del potere. Quindi non mi sorprende che, per esempio, oggi ci siano uomini e donne di destra che spiano uomini e donne di destra oltre a dare un’occhiata anche ai punti deboli degli avversari di sinistra. E viceversa”.
Quali erano le caratteristiche di queste intercettazioni?
“Rubare episodi sconvenienti o delegittimanti. Se per caso lo spiato non ne aveva, creare appositamente qualche trappola, generalmente sessuale o economica, oppure esagerare un neo difettoso, o ancora, falsificare del tutto”.
Ma questo richiede una grande preparazione.
“In passato c’era una certa scuola, sia nei partiti che nelle forze dell’ordine. Oggi nel settore si avverte un certo “declino culturale”, chiamiamolo così. Non è un’espressione a caso. Pensi che ci sono casi di bobine consistenti, registrate e abbandonate perché lo spiato parla un inglese stretto, o un dialetto pashtun o un arabo o un ebraico, linguaggi che lo spione non ha mai praticato. Ironicamente potrei suggerire a chi paga questi “lavoretti”, di investire molto di più nella formazione. Le dirò, c’è stato persino il caso di un maresciallo dei Carabinieri che, mostrandomi i nastri di intercettazioni accantonati, mi disse: ‘Ecco tutti i nastri non sviluppati, inutilizzabili. Manca il personale per svilupparli’ “.
Come cambia il ruolo degli spioni nell’era dell’intelligenza artificiale e dei big data?
“C’erano una volta dossier grandi come dei dizionari, cento o centoventi pagine, oggi basta un archivio digitale per contenere migliaia di informazioni. Questo apparente vantaggio tecnologico, può però rivelarsi insidioso. Avere troppi dati può essere inefficace quanto non averne affatto, perché senza la capacità di selezionarli e interpretarli, non servono a nulla. L’intelligenza artificiale può fornire una prima scrematura, ma restano molti limiti: se due persone parlano in codice o usano un linguaggio allusivo, solo l’esperienza di un vero operatore può decifrare il senso. È il motivo per cui l’operazione Pizza Connection ebbe successo: fra gli agenti dell’FBI ne spuntò uno che era siciliano. Quindi, nonostante l’entusiasmo per i big data, il contributo umano resta essenziale, perché le macchine non colgono ancora le sfumature culturali e psicologiche di certi scambi”.
Alcuni osservatori dicono che avere sottovalutato la HUMINT, il lato umano dell’intelligence, sia stato proprio l’errore del Mossad israeliano prima dell’assalto di Hamas del 7 ottobre.
“Credo che sia presto per dirlo. Dubito che sia così semplice. In questo momento si possono fare varie ipotesi. A pensar male si fa peccato, ma si potrebbe addirittura pensare che qualche alto dirigente dei servizi israeliani abbia tardato a prendere in considerazione gli avvertimenti, magari di qualche fonte egiziana, sull’imminente attacco di Hamas. Il quadro generale è la crisi politica degli ultimi anni che Israele vive, e il bisogno di scaricare sul ‘nemico’ questa medesima crisi”.
Come mai sentiamo sempre più parlare di ricatti e guerre informative?
“Le guerre moderne richiedono una spinta informativa senza precedenti e il mercato delle informazioni si è allargato enormemente. Il numero di spie e operatori coinvolti in raccolte dati non è mai stato così alto, anche perché il vantaggio strategico di avere informazioni sull’avversario è oggi indispensabile. La situazione internazionale vive una tensione tale da rendere ovvio l’intensificarsi dello spionaggio. Il mercato dei “dossier” cresce continuamente.
Diciamola tutta, i governi raramente non hanno qualche elemento da piazzare nel personale dei servizi di intelligence e raramente corrono il rischio di destituire quelli precedenti”.
In tutto questo scenario, qual è il consiglio che si sente di dare alle tante vittime dei dossieraggi?
“Dico di fidarsi del lavoro dei magistrati, e di ricordarsi della lezione di un abilissimo navigatore nei mari tempestosi del dopoguerra, Giulio Andreotti. Lui ammoniva: ‘una smentita vuol dire una notizia data due volte’ ”.
Nadir Lehemdi