India e OpenAI: Il data center delle opportunità. L’intelligenza artificiale ha bisogno di spazio e materie Di Nadir Lehemdi

India e OpenAI: Il data center delle opportunità. L’intelligenza artificiale ha bisogno di spazio e materie Di Nadir Lehemdi

OpenAI annuncia con tempismo calcolato e con una retorica borsistica ormai sempre più inevitabile la volontà di collocare in India un centro dati dalla capacità minima di un gigawatt, un annuncio che non si esaurisce nell’aspetto tecnico ma che viene percepito come atto politico, come dichiarazione di centralità strategica, come investitura simbolica di un Paese che da tempo si propone come nuova officina del digitale globale. L’ufficio legale è già stato registrato, l’apertura di una sede a Nuova Delhi è in preparazione, la visita di Sam Altman, AD ormai a tutti noi arcinoto, prevista a settembre viene interpretata come momento quasi liturgico, in cui l’intenzione si materializza e il progetto “Stargate” (di cui la testata ilCaffeGeopolitico riassume benissimo le variabili) assume volto istituzionale.

È difficile pensare che la scelta di collocare in India un’infrastruttura di tale imponenza risponda a una casualità o a mere convenienze logistiche: più verosimilmente essa discende dalla consapevolezza che il Paese oggi rappresenta un crocevia decisivo. Da un lato la disponibilità di una forza lavoro tecnica che è cresciuta e si è consolidata negli ultimi decenni, formando intere generazioni di programmatori e ingegneri che hanno già fatto la fortuna di molte aziende occidentali. Tanto da aver introdotto nell’immaginario di tutti, tramite film e serie tv, la figura dell’ingegnere o del super-programmatore indiano.
Dall’altro lato la promessa di una riconversione energetica affidata alle fonti rinnovabili, narrata con insistenza dal governo come prova di modernità. Accanto a ciò una bramata emancipazione dalle potenze americana e cinese, presentandosi come garante di una terza via democratica, capace di offrire affidabilità agli investitori senza rinunciare al proprio orgoglio nazionale, chissà quanto accreditata perfino fra gli attentissimi osservatori indiani.

In questo scenario, ci troviamo di fronte a un centro dati che non appare come una semplice fabbrica di calcolo ma come un passaggio piuttosto importante verso la trasformazione dell’India in custode della nuova energia del secolo, l’energia computazionale.

Parallelamente le trattative con Reliance Industries dimostrano che non siamo di fronte a un progetto isolato: si discute della possibilità di distribuire ChatGPT tramite Jio, gigante nazionale paragonabile alla nostra Telecom Italia, di ospitare i modelli linguistici direttamente su server nazionali. Qui l’India non accoglie soltanto un’infrastruttura: l’IA non rimane privilegio delle élite, ma si annuncia come quotidianità per milioni di utenti, con chissà quante e quali possibilità di sperimentazione e quali implicazioni rispetto alla narrazione e al racconto sociale di un paese così complesso.

Microsoft, SoftBank e Oracle hanno già predisposto investimenti complessivi per centinaia di miliardi, l’India è ormai l’arena geopolitica alternativa in cui la nuova industria pesante non è più acciaio ma silicio, non più carbone ma corrente, non più altiforni ma server farm che si ergono come cattedrali del calcolo. Ma si può mai ridurre questa corsa ad una semplice competizione economica? O valgono ancora qualcosa i ragionamenti più schumpeteriani: v’è un mutamento di paradigma, un’idea che la potenza di una nazione si misuri ormai anche nella capacità di ospitare, alimentare e proteggere la computazione su scala globale.

Tuttavia, se siamo di fronte a una crescita innegabile dell’India, che fa un salto di qualità oltre all’offerta di manodopera super-qualificata e di un’industria pur storica. Resta la questione della direzione nella quale verge questo salto. Una direzione che non pare ad oggi tanto nuova. È prudente riconoscere che quando un colosso occidentale installa sul territorio un’opera di scala gigantesca non porti soltanto sviluppo e prestigio, ma che introduca vincoli contrattuali, consumi energetici ed effetti ambientali e sociali che non sempre coincidono con le priorità locali. Qui il discorso si presta ad una lettura molto macroscopica: l’India che accoglie gli investimenti come sempre ha fatto, come naturalmente si presta a fare una parte della sua classe imprenditoriale, e magari come leva diplomatica per sedersi ai tavoli globali; ma nello stesso tempo quell’India che si contenta di un equilibrio delicato, perché la proprietà delle tecnologie rimane altrove, le catene di fornitura restano internazionali, e il potere di indirizzare lo sviluppo riguarda proiezioni anche di altri attori globali, magari dei soliti con cui volenti o nolenti è doveroso fare i conti. È in questa affascinante tensione — tra crescita nazionale e interdipendenza globale — che si giocherà la vera partita politica dello “Stargate” indiano.

Nadir Lehemdi – Milano

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