L’Italia si trova di fronte a un paradosso inaccettabile: mentre le bollette dell’acqua sono schizzate alle stelle, con aumenti che in molti comuni superano l’80% in appena 15 anni, il servizio erogato è una vergogna. È un insulto all’intelligenza dei cittadini vedere i giganti del settore idrico come Acea, Hera, Iren e A2A intascare dividendi milionari, mentre le infrastrutture collassano e gli investimenti restano scandalosamente tra i più bassi d’Europa.
La realtà dei numeri è impietosa e rivela una gestione scellerata: il 42% dell’acqua potabile in Italia si perde ogni singolo giorno a causa di una rete di distribuzione fatiscente, che non è stata manutenzionata negli anni e che continua tutt’ora a non esserlo. Questo significa che quasi la metà dell’acqua che dovrebbe arrivare nelle nostre case non lo fa mai. Immaginate di comprare dieci bottiglie d’acqua e scoprirne quattro vuote, ma di doverle pagare tutte. È esattamente quello che succede ai cittadini italiani, costretti a coprire i costi di una disfunzione sistemica.
Nel 2023, il settore idrico ha generato un fatturato stratosferico di 10 miliardi di euro. Ma a cosa è servito questo fiume di denaro? Certamente non a migliorare il servizio. Le tariffe sono aumentate del 35% in dieci anni, eppure le reti sono sempre più colabrodo, gli sprechi all’ordine del giorno e gli investimenti insufficienti. È un affronto alla logica: più si paga, peggio è il servizio.
Le mappe della dispersione d’acqua sono un’ulteriore accusa. In Sicilia, metà dell’acqua si disperde, un dato che grida vendetta. La Puglia non è da meno con il 38%, e la Campania con il 32,2%. Ma anche il Nord, con la Lombardia all’11% e il Piemonte al 9%, mostra l’incuria generalizzata.
Il referendum del 2011 aveva espresso una chiara volontà popolare contro la privatizzazione dell’acqua. Un plebiscito che è stato sistematicamente ignorato. Oggi, oltre il 60% del servizio è nelle mani di società per azioni. Il risultato? Un modello che favorisce profitti sfacciati per pochi e offre meno trasparenza, e un servizio scadente, per tutti.
Questa situazione non è più tollerabile, soprattutto alla luce del ricorrente allarme siccità che i comuni sono costretti a proclamare ogni estate. Anziché intervenire con decisioni strutturali per ripristinare un impianto idrico efficiente e a prova di futuro, si preferisce la facile via delle emergenze annuali, scaricando ancora una volta sui cittadini le conseguenze di decenni di immobilismo e cattiva gestione.
Il Tesoro Nascosto del Sottosuolo Siciliano: Una Risorsa Ignorata
La Sicilia, gioiello del Mediterraneo, si trova al centro di un paradosso idrico che è lo specchio di una gestione nazionale fallimentare: un territorio ricco di risorse naturali soffocato da una cronica “emergenza siccità” che, anziché essere risolta alla radice, viene perennemente “tamponata” con soluzioni costose e insostenibili. La narrazione di un’isola assetata si scontra drammaticamente con la realtà di un sottosuolo straripante d’acqua, e una politica incapace di garantire un futuro idrico stabile e duraturo.
La retorica della “siccità” in Sicilia è un velo che nasconde una verità scomoda: l’isola non è affatto priva di risorse idriche. Anzi, il suo sottosuolo è un vero e proprio serbatoio naturale, abbondante di falde acquifere e riserve idriche profonde. Studi geologici e fonti autorevoli confermano la presenza di acquiferi carsici cruciali per l’idropotabile e di un acquifero strategico nell’area etnea con potenzialità immense. La scoperta di nuove falde acquifere profonde, come quella sotto i Monti Iblei, suggerisce che la crisi idrica sia più una questione di cattiva gestione che di scarsità della risorsa stessa. Le acque sotterranee, meno vulnerabili a siccità ed evaporazione, dovrebbero essere la colonna portante di una strategia idrica resiliente, come da sempre sostenuto dalla Società Geologica Italiana.
Questo rende ancora più inaccettabile la dispersione del 50% dell’acqua in una regione che, pur sedendo su una ricchezza idrica sotterranea, è costretta a invocare lo stato di emergenza.
Il Costo Salato dell’Inerzia: I Dissalatori, Illusione Energetica e Ambientale
Di fronte a questa inefficienza endemica, la politica risponde spesso con soluzioni-tampone dispendiose e dall’alto impatto. I dissalatori sono l’esempio più calzante. Promossi come la panacea per la siccità, questi impianti sono, nella realtà, un enorme spreco di energia elettrica.
Le tecnologie di dissalazione, in particolare l’osmosi inversa, sono estremamente energivore. Il costo energetico per produrre acqua dissalata è elevatissimo e, se non alimentato da fonti rinnovabili, contribuisce in modo significativo all’inquinamento atmosferico e all’aumento delle bollette energetiche per i cittadini. Si stima che per un consumo familiare medio, l’acqua dissalata potrebbe aggiungere centinaia di euro all’anno alla bolletta elettrica. Oltre al consumo energetico, i dissalatori producono salamoia tossica, il cui scarico in mare ha un impatto devastante sull’ambiente marino, alterando la salinità e la vita degli ecosistemi costieri.
La scelta di investire massicciamente in dissalatori, anziché dirottare fondi verso la riparazione e l’ammodernamento delle reti idriche colabrodo e lo sfruttamento intelligente e sostenibile delle falde sotterranee esistenti, rivela una politica che preferisce la via d’emergenza, più appariscente e spesso legata a grandi appalti, rispetto a una pianificazione strategica di lungo periodo. È la politica che non risolve i problemi strutturali ma si limita a “tamponare” le emergenze annuali, scaricando i costi e le conseguenze ambientali e sociali sui cittadini e sulle generazioni future.
Francesco Paolo Cinquemani
*avvocato