Nelle grandi città esistono angoli nascosti, che non finiscono sulle cartoline né nelle narrazioni lucide del progresso. Sono le periferie, spazi sospesi dove la vita si muove ai bordi e i confini non sono solo fisici, ma anche sociali, culturali ed emotivi. È qui che tanti giovani nascono, crescono, inciampano, si rialzano. E lo fanno, troppo spesso, lontano dagli sguardi di chi conta.
Vivere la giovinezza in periferia non è semplicemente abitare lontano dal centro urbano. È crescere in un ambiente che, invece di offrire, spesso sottrae. Mancano le opportunità, scarseggiano i modelli positivi, si dissolvono gli spazi di aggregazione. Le periferie non sono solo quartieri di cemento: sono territori segnati da carenze strutturali, da servizi insufficienti e da una mobilità limitata che rende ogni traguardo più difficile da raggiungere. Per chi nasce in questi contesti, la partenza è già in salita.
Le difficoltà si manifestano presto. Molti ragazzi vivono in case sovraffollate, in quartieri dove i luoghi sicuri scarseggiano, dove la scuola diventa (spesso) l’unico presidio educativo. Ma anche l’istruzione, da sola, non può colmare tutte le mancanze. Ci sono famiglie che lottano ogni giorno contro la precarietà, adulti che affrontano lavori pesanti e poco remunerati, genitori che vorrebbero esserci di più ma che devono fare i conti con turni massacranti. In un tale contesto, un giovane capisce in fretta che il mondo non è stato costruito pensando a lui.
Eppure, il segno più profondo non è materiale, ma simbolico. Crescere in periferia significa spesso assimilare, lentamente, l’idea di valere meno. Significa vedere raccontato il proprio quartiere solo attraverso le pagine di cronaca nera, come se il degrado fosse l’unica narrazione possibile. Significa essere guardati con diffidenza quando si esce dal proprio perimetro, come se l’indirizzo di residenza fosse una colpa. È lì che si apre la ferita dell’identità: quando un giovane si sente dire, in modo diretto o indiretto, che il luogo da cui proviene è già una condanna.
Questa narrazione distorta ha effetti concreti. I giovani delle periferie rischiano di avere una visione ristretta di ciò che è possibile. Sognare diventa un privilegio, immaginare un futuro differente una sfida troppo audace. Le strade grigie, le piazze vuote e i muri scrostati diventano anche paesaggi interiori. E il confine tra mancanza e rassegnazione si assottiglia fino a scomparire.
Ma sarebbe un errore grave puntare il dito contro i ragazzi. Le responsabilità sono politiche, collettive. Chi governa non può trattare le periferie solo come zone da contenere, ma deve considerarle comunità da valorizzare. Le istituzioni hanno il dovere di intervenire, non solo con progetti edilizi, ma con una visione di lungo termine. Troppo spesso le periferie sono state affrontate in modalità emergenziale con interventi provvisori, cantieri mai completati, promesse disattese.
Investire nelle periferie significa credere nei giovani che vi abitano. Significa creare scuole aperte tutto il giorno, centri culturali accessibili, spazi per lo sport e l’arte, percorsi formativi che conducano davvero al lavoro. Significa proteggere i ragazzi dalle sirene della microcriminalità non solo con la repressione, ma offrendo strade alternative, reali e concrete. Significa tenere pulite le strade, illuminare le piazze, far funzionare i trasporti: perché la bellezza è un diritto educativo, non un lusso.
Un giovane nato in periferia non è destinato allo svantaggio. Lo diventa quando le Istituzioni lo dimenticano, quando il territorio non viene curato, quando la comunità non viene sostenuta. Ogni volta che un ragazzo lascia la scuola, che una ragazza smette di sognare, che un talento resta invisibile, la colpa è di chi avrebbe potuto fare qualcosa e ha scelto di non farlo.
Eppure, tra mille difficoltà, nelle periferie italiane continuano a sbocciare storie di coraggio. Giovani che si reinventano, che costruiscono progetti dal nulla, che creano arte nei garage, che fondano associazioni e provano a cambiare il quartiere dall’interno. Dimostrano che la periferia non è un destino, ma un terreno fertile che ha solo bisogno di essere nutrito.
I giovani delle periferie non chiedono privilegi. Chiedono ciò che spetta a tutti: rispetto, opportunità, diritti. Chiedono di essere visti per ciò che possono diventare, non per ciò che manca loro oggi. Chiedono di non essere più “ragazzi ai margini”, ma cittadini al centro di una nuova visione politica.
Il vero riscatto non nasce nei palazzi del potere, ma nello sguardo che questi rivolgono ai giovani. Periferia non deve più significare periferia di esistenza. Perché un giovane cresciuto ai bordi della città porta con sé una domanda profonda: quanto valgo? E la risposta, la più vera, non dovrebbe mai arrivare dalla strada.
Giuseppe Labita ©2025
