Il rumore è impercettibile, ma per Giuliana suona come un’esplosione. I granelli di sale bianco si spargono sul linoleum della cucina. Per chiunque altro, è un piccolo incidente domestico, risolvibile con scopa e paletta. Per Giuliana, è l’inizio di un conto alla rovescia. Il suo cuore accelera. Le mani sudano. Non è più una donna di 45 anni che ha perso il lavoro sei mesi fa; è un bersaglio. In una frazione di secondo, la sua mano destra afferra un pizzico di quel sale e lo lancia dietro la spalla sinistra. Deve farlo.
Deve accecare il diavolo che aspetta lì, nel punto cieco. Solo dopo aver compiuto il gesto, il respiro torna regolare.
Giuliana non è “pazza”. Giuliana è umana, forse troppo.
Quello che accade nella sua cucina non è un residuo di un passato ignorante, ma il risultato di un software biologico sofisticatissimo che gira al massimo dei giri. Tutti noi conosciamo quella sensazione. Quella volta che abbiamo indossato la “maglietta fortunata” per un colloquio. O quel brivido irrazionale quando passiamo sotto una scala. Viviamo in un’epoca di incertezza radicale pandemie, crisi economiche, precarietà lavorativa e quando il mondo smette di avere senso, il nostro cervello è programmato per inventarsene uno. A qualsiasi costo.
La macchina delle coincidenze
Per capire perché Giuliana vede presagi di morte in un passero che si posa sul davanzale, dobbiamo smettere di pensare al cervello come a una macchina fotografica che registra la realtà. Il cervello è una macchina predittiva. È un casinò costantemente aperto che scommette su cosa accadrà tra un secondo. Al centro di questo casinò c’è un croupier chimico: la dopamina. Contrariamente a quanto si legge spesso sui rotocalchi, la dopamina non serve solo a darci piacere. Il suo vero lavoro è segnalare l’errore. Quando accade qualcosa di inaspettato e positivo (trovi 50 euro per terra mentre indossi una sciarpa rossa), la dopamina spara un segnale: “Attenzione! Questo è importante. Ricorda la sciarpa”. Questo meccanismo si chiama Reward Prediction Error ed è essenziale per imparare. Ma nel cervello di Giuliana, e in misura minore in tutti noi quando siamo stressati, questo meccanismo si inceppa. Si chiama “salienza aberrante”. Il sistema dopaminergico inizia a etichettare come “importanti” eventi che sono solo rumore di fondo. Un gatto nero, un numero civico, una canzone alla radio. Tutto diventa un segnale. L’apofenia, ovvero la tendenza compulsiva a vedere connessioni dove non ce ne sono, non è un difetto visivo, è un eccesso di significato. Il mondo non è più muto; il mondo “parla” costantemente a Giuliana. E di solito, porta cattive notizie.
Il costo metabolico dell’incertezza
Perché l’evoluzione ci ha lasciato questo bug nel sistema? Perché i nostri antenati non vivevano in uffici climatizzati, ma nella savana. Immaginate due ominidi. Il primo sente un fruscio nell’erba, pensa “è il vento” e rimane lì. Il secondo pensa “è una tigre” e scappa. Se era solo vento, il secondo ha sprecato un po’ di calorie. Se era una tigre, il primo è morto.
Noi siamo i discendenti dei paranoici. Siamo i figli di chi vedeva tigri dove c’era solo vento.
Oggi non abbiamo tigri, ma abbiamo licenziamenti, email senza risposta e instabilità economica. L’incertezza è tossica per il cervello. È uno stato metabolicamente costoso che consuma risorse enormi. Di fronte all’incertezza del futuro (Giuliana ha perso il lavoro e il suo ruolo sociale), l’amigdala la sentinella della paura inizia a urlare. Qui entra in gioco il rituale. La superstizione funziona come un ansiolitico cognitivo a rilascio immediato. Trasforma un’ansia vaga e ingestibile (“Forse andrà tutto male”) in un problema con una soluzione pratica (“Se getto il sale, andrà tutto bene”). È un baratto: sacrifichi la logica per ottenere un po’ di pace.
Quando il filtro si rompe
Di solito, abbiamo un sistema di sicurezza che impedisce a queste intuizioni magiche di prendere il sopravvento: la corteccia prefrontale. È la parte razionale, quella che dovrebbe dire: “Giuliana, è solo sale, il cloruro di sodio non influenza il mercato del lavoro”. Ma studi di neuroimaging mostrano che sotto stress prolungato, o in persone con tratti di personalità schizotipica, la connessione tra la parte emotiva e quella razionale si indebolisce.
Il “veto” della ragione non arriva.
È interessante notare come i rituali di Giuliana abbiano una geometria precisa. Bussare sul legno, gettare il sale: sono tutti movimenti che vanno via dal corpo. Gli psicologi cognitivi hanno scoperto che queste azioni fisiche di allontanamento riducono davvero la vividezza delle immagini mentali negative. È come se Giuliana stesse fisicamente spingendo via la simulazione del disastro. Non è solo teatro; è un tentativo disperato di hacking del proprio sistema nervoso. Tuttavia, questo sollievo ha un prezzo salato. Ogni volta che Giuliana esegue il rituale e la catastrofe non avviene, il suo cervello impara la lezione sbagliata: “Vedi? Ha funzionato perché hai gettato il sale”. Si chiama rinforzo negativo. Più lo fa, più si convince che sia necessario. È una trappola perfetta. L’illusione di controllo diventa una prigione.
Uscire dal labirinto magico
Come si aiuta qualcuno che crede che i propri pensieri possano uccidere? Non con la logica bruta. Dire a Giuliana “non è vero” serve a poco, perché la sua esperienza emotiva le dice che è vero. La scienza clinica oggi suggerisce un approccio più sofisticato, quasi diplomatico. Si inizia con la tecnologia “SlowMo”. Il pensiero paranoide è veloce, automatico, viscerale. La terapia insegna a rallentare. A visualizzare quei pensieri come notifiche pop-up su un computer: puoi vederle senza cliccarci sopra. Poi, c’è la parte più difficile: l’esposizione. Giuliana deve imparare a tollerare il rischio. Deve versare il sale e… non fare nulla. Deve sedersi con quella paura, guardarla in faccia e scoprire che il mondo non crolla. Deve riscrivere il codice del suo cervello, trasformando l’errore di predizione (“succederà qualcosa di terribile”) in una nuova evidenza (“non è successo niente”). Il confine tra una credenza culturale innocua e la patologia è sottile. Se Giuliana crede che il 17 porti sfortuna ma prende l’aereo lo stesso, è folclore. Se perde occasioni di vita, si isola e vive nel terrore, è una gabbia clinica che richiede le chiavi della psicoterapia. Riflettendo sul caso di Giuliana, è difficile non vedere un riflesso di noi stessi. In un mondo sempre più complesso e imprevedibile, la tentazione di cercare schemi nascosti, di trovare un “senso” anche dove c’è solo caso, è potente. Forse la guarigione non sta nell’eliminare ogni traccia di pensiero magico sarebbe disumano ma nel non permettere alla paura di decidere quale strada prendere al mattino.
Di Giuliano Ferrari
