Lo stato israeliano ha un calendario delle commemorazioni molto particolare.
Il 13 maggio è stata la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle guerre e del terrorismo. Il 14 maggio tocca alla festa dell’indipendenza. Tristezza e gioia, sostanzialmente. E le ricorrenze, quest’anno, si svolgono in piena guerra: mentre 132 ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas (e il trauma del 7 ottobre perseguita tutti gli israeliani).
Il risultato è stato un 13 maggio pieno di divisioni: espressione di una società spaccata? La risposta affermativa sembra inevitabile se considera che il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato attaccato dai familiari degli ostaggi durante un discorso pronunciato sul monte Herzl, a Gerusalemme. Alcuni dei presenti sono andati via nel momento in cui ha preso la parola. Sorte diversa non è toccata ad altri ministri (a cominciare da quelli di estrema destra).
La larga spaccatura che si è aperto nella società israeliana è ora voragine; talmente larga che il 13 maggio il quotidiano liberale Haaretz ha scritto: “Israele è diviso in due stati ebraici incompatibili”. Diagnosi brutale considerando che le tensioni hanno caratterizzato l’intero 2023 -con una serie infinita di manifestazioni contro i progetti del primo ministro-.
Israele deve affrontare un enorme paradosso (non inedito). La maggioranza degli israeliani, sotto shock dopo l’attacco del 7 ottobre, approva (?) la risposta impietosa contro la popolazione di Gaza. Ma le stesse persone non si fidano più dell’uomo al vertice che gestisce le operazioni, Netanyahu. In piena guerra, le manifestazioni per chiedere elezioni anticipate sono riprese; e si tengono ogni sabato.
Di questo fenomeno la spiegazione è doppia. Da un lato la responsabilità per il disastro del 7 ottobre in termini di sicurezza -i militari hanno fatto mea culpa, così come il capo dello stato maggiore, che ha dichiarato di essere perseguitato dal pensiero di 1.200 morti che si sarebbero potuti evitare-. Il primo ministro ha fatto lo stesso -ma chiaramente controvoglia-.
L’altra spiegazione è legata al modo in cui il conflitto è condotto (con la decisione di non dare la priorità alla liberazione degli ostaggi, tanto sperata, tanto chiesta); all’assenza di una visione per il dopoguerra; al rialzo continuo della posta in gioco da parte dell’estrema destra -da cui Netanyahu dipende per conservare il potere-.
Questa sfiducia pesa molto sul clima attuale. Il futuro è pieno di incognite. Poche certezze. Tanta inquietudine. D’altronde, come si fa a costruire un futuro (comun-palestinese) in queste condizioni? Con questi presupposti (fortemente ideologico-politicizzati)?
In un momento in cui la tragedia dei civili di Gaza compromette l’immagine del loro paese nel mondo, gli israeliani devono affrontare dilemmi di guerra crudele -che si avvicina a una pericolosa escalation a Rafah- nella totale assenza di un progetto comune per il futuro. Per lo stato ebraico, è indubbiamente un triste anniversario.