Sei sicuro di respirare o stai soffocando davanti allo schermo ?

Sei sicuro di respirare o stai soffocando davanti allo schermo ?

Esiste una probabilità statistica inquietante che, proprio in questo istante, mentre i tuoi occhi scorrono queste righe, tu abbia smesso di respirare. Non del tutto, ovviamente. Ma il tuo diaframma si è bloccato a metà corsa, congelato in un’apnea sottile e impercettibile. È un riflesso automatico che scatta quando il cervello deve elaborare informazioni su uno schermo: un’eredità evolutiva di quando, nella savana, immobilizzarsi era l’unica strategia per sfuggire ai predatori. Oggi il predatore è una notifica push e la savana è il feed di Instagram.Viviamo immersi in un paradosso somatico. Mai nella storia della nostra specie il corpo è stato così esposto, scolpito, filtrato in 4K e monitorato da orologi intelligenti che contano passi e saturazione dell’ossigeno. Eppure, mai come ora, siamo stati così assenti a noi stessi. Siamo diventati “cervelli in vasche di vetro”, piloti di avatar che navigano in un etere luminoso, mentre il “veicolo” biologico   quella massa di carne e nervi seduta sulla sedia  scivola in un torpore funzionale.

Gli scienziati chiamano questo fenomeno “eclissi interocettiva”. E non è una metafora poetica: è un’emergenza fisiologica.

L’interocezione non si limita a segnalarti la fame o lo stimolo di andare in bagno. È un sesto senso nascosto, un dialogo costante e sotterraneo tra i tuoi organi interni e l’insula cerebrale, una piega profonda della corteccia che agisce da centro di controllo. È questo canale a dirti non solo come stai, ma chi sei. È la base biologica dell’emozione. Quando dici “ho un nodo allo stomaco” o “mi sento il cuore in gola”, non stai usando figure retoriche: stai leggendo i dati grezzi che il corpo invia al cervello. Ma nell’era dell’anestesia digitale questo segnale si sta affievolendo, coperto dal rumore bianco delle informazioni. Stiamo dimenticando la password del nostro stesso sistema operativo. Per capire cosa rischiamo davvero, dobbiamo riavvolgere il nastro fino al 2014. In quell’anno, un team di ricercatori finlandesi guidati da Lauri Nummenmaa pubblicò su PNAS uno studio che divenne la Stele di Rosetta della neuroscienza affettiva. Il loro obiettivo era semplice quanto ambizioso: disegnare la geografia delle emozioni. Chiesero a oltre 700 persone, da Taiwan alla Svezia, di colorare su sagome umane vuote le zone in cui percepivano un’attivazione fisica (calore, formicolio) o una deattivazione (freddo, intorpidimento) in risposta a stimoli emotivi. I risultati non furono scarabocchi casuali: emersero mappe termiche di una coerenza sconvolgente, identiche in ogni cultura. La rabbia non è un concetto astratto: è un incendio che divampa nel torace, risale il collo e accende braccia e mani. È il corpo che inonda i muscoli di catecolamine – adrenalina e noradrenalina – preparandosi allo scontro. La paura, invece, è un radar acceso nel petto e negli occhi, mentre lo stomaco si svuota di sangue (la digestione è inutile se devi scappare), generando quella tipica sensazione di gelo viscerale. La mappa più straziante, però, è quella della depressione. Osservandola, vedrete un corpo dominato dal blu e dal nero. Le braccia e le gambe sono “spente”, disattivate. Non è la tristezza, che conserva ancora un nucleo di calore nel cuore; è assenza totale. È il sistema nervoso che stacca la spina, recide i cavi della connessione sensoriale e si ritira.

Il problema è che la nostra vita digitale sta “hackerando” queste mappe, confondendo i territori. Prendiamo la “Screen Apnea”, l’apnea da schermo citata all’inizio. Trattenere il respiro altera il pH del sangue accumulando CO2. Questo invia un segnale di allarme al nervo vago, l’autostrada che collega cervello e visceri. Il corpo entra in stato di allerta: il cuore accelera, il petto si contrae. Se sovrapponiamo questo stato alle mappe di Nummenmaa, l’attivazione corrisponde esattamente all’ansia e alla paura.

Ecco il cortocircuito: stiamo leggendo una mail innocua, ma il corpo mima la fisiologia del panico. L’insula riceve questi dati – “petto stretto, respiro corto” – e conclude che dobbiamo essere in pericolo. Ci sentiamo ansiosi non per una minaccia reale, ma perché abbiamo indotto meccanicamente i sintomi della paura restando immobili davanti a un display.

All’estremo opposto troviamo il “Bed Rotting”, la pratica virale su TikTok di passare giorni interi a letto consumando contenuti passivamente, spacciandola per self-care. La Teoria Polivagale di Stephen Porges ci offre una lente clinica per leggere questo comportamento. Il vero riposo attiva il sistema vagale ventrale: ci sentiamo sicuri, caldi, connessi. Il rotting, il “marcire” dolcemente tra le lenzuola, attiva invece il sistema vagale dorsale: lo stato di congelamento.

Rimanendo immobili per ore e sopprimendo la motilità degli arti, replichiamo con precisione chirurgica la mappa termica della depressione di Nummenmaa (arti freddi, inerzia, disconnessione). Il cervello, che apprende costantemente dallo stato del corpo, registra questa inattività come un segnale di spegnimento. Quello che inizia come riposo finisce come una prova generale di patologia depressiva. Il corpo impara il “blu” e lo memorizza.

Le conseguenze di questo analfabetismo somatico sono già visibili. Gli psicologi osservano un’impennata di alessitimia nei nativi digitali. Il termine, dal greco, significa letteralmente “mancanza di parole per le emozioni”. Se non senti il calore della rabbia o il peso della tristezza perché la tua attenzione è proiettata interamente fuori, nel feed, non saprai dare un nome a ciò che provi. Sentirai solo un malessere indistinto, un ronzio di fondo, una tensione senza etichetta. La mappa diventa bianca.

La tecnologia sta provando a venderci la soluzione al problema che ha creato. Si parla di “Cyberocezione”: l’idea che i nostri telefoni, rilevando i micromovimenti delle mani o la variabilità del battito cardiaco, possano dirci come stiamo prima che lo sappiamo noi. Immaginate uno smartphone che modifica la vibrazione in un ritmo lento e pulsante per calmare la vostra ansia tramite trascinamento ritmico. È affascinante, ma rappresenta l’ultimo stadio dell’esproprio: esternalizzare la nostra introspezione a un algoritmo.

La vera rivoluzione, quella necessaria, è analogica. È un ritorno al territorio.

La scienza suggerisce che possiamo usare le mappe di Nummenmaa al contrario. Se l’emozione crea la sensazione fisica, manipolare la sensazione fisica può regolare l’emozione. È un approccio bottom-up (dal corpo alla mente).

Pensiamo al “Sospiro Fisiologico”, un meccanismo respiratorio che i neuroscienziati stanno riscoprendo. Due inspirazioni brevi dal naso (per riaprire gli alveoli polmonari collassati dall’apnea da schermo) seguite da una lunghissima espirazione dalla bocca. Non è yoga, è meccanica dei fluidi: l’espirazione prolungata attiva i barocettori, che ordinano al cuore di rallentare immediatamente. È un freno a mano chimico per l’ansia digitale.

O consideriamo la temperatura. Le mappe ci dicono che l’amore e la connessione sociale sono vissuti come calore diffuso. Studi sulla “Whole-Body Hyperthermia” mostrano che bagni caldi o saune possono avere potenti effetti antidepressivi. In un mondo che ci isola e ci raffredda, il calore fisico inganna beneficamente il cervello, simulando l’abbraccio che ci manca e riaccendendo le zone spente della mappa.

Non siamo macchine pensanti che per caso abitano un corpo. Siamo mappe viventi di fuoco e ghiaccio. La sfida del prossimo decennio non sarà entrare nel metaverso, ma riuscire a rimanere nella nostra pelle. Dobbiamo ricordare che l’interfaccia utente più sofisticata che possediamo non è il rettangolo di vetro nero, ma il torace che si alza e si abbassa, il cuore che batte, il sistema nervoso che cerca instancabilmente di parlarci. Finché avremo un corpo, la mappa sarà lì, in attesa di essere letta di nuovo.

Basta fare un respiro profondo per iniziare a tracciare la rotta del ritorno.

Di Giuliano Ferrari

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